Julie's Haircut - Ashram Equinox (Woodworm/Santeria)


di Paolo Finocchiaro - Abbandonate o per lo meno accantonate - con o senza ovvietà d'intenti - le influenze di Sonic Boom (Spacemen 3, Spectrum) e le chitarre, qui o là, alla Sonic Youth del precedente disco “Our Secret Ceremony” (A Silent Place – 2009), i Julie's  Haircut ci ripresentano un altro straordinario lavoro di gnosi sonora che ripercuote - diligentemente - la cifra preziosa dei precedenti lavori – da citare anche “After Dark, My Sweet” (Homesleep – 2006) - come a tessere e (in)seguire un percorso legato sì alla ricerca di paesaggi nuovi, ma anche dalla voglia di elevarsi e superare sempre di più il proprio orizzonte di crescita come gruppo, anzi collettivo. 

Questo Ashram Equinox - ricordiamolo, quasi privo della parte vocale, ad eccezione di alcuni cori - pulsa e medita allo stesso tempo. Difatti, gli ashram nella tradizione spirituale orientale - eremi dalle nostre parti - sono luoghi di meditazione e riflessione per maestri e saggi dello spirito. Ecco. Una ricerca nelle luci e ombre dello spirito e per lo spirito dove i mantra che ci conducono verso l'illuminazione e un oltre sono decantati dal libro del krautrock più elettronico - e meno motorik rispetto al lp scorso -  dove tra le pagine possiamo, difatti, citare Klaus Schulze, Tangerine Dream, scuola di berlino su tutti; ma leggasi anche tra le righe progressive elettronico come i Vangelis di “L'Apocalypse Des Animaux”. Tuttavia s'inserisce e stratifica ancora una volta il tutto una certa psichedelia spaziale dronica e, definiamolo così, anche un siffatto ambient carillon del quarto tipo. 

Ma non è tutta gnosi e meditazione a ben ascoltare. I pezzi si compenetrano  - a sottolineare il concept che sta dietro il disco - anche attraverso efficacissimi e a tratti intricati pattern di batteria pulsanti  - appunto - aventi a che fare con un tedesco chiamato Jaki Liebezeit, il poliedrico batterista dei Can. Sì, l'influenza degli anni dei capolavori (Tago Mago, Ege Bamyasi) della band di Colonia è parecchio presente, eh sì, ma non totale. Non a caso esiste un pezzo di quest'ultimi chiamato “Vernal Equinox” presente in “Landed”. Sarà un caso la quasi omonimia (?). Una influenza  resa anche non a tutti i costi retrò e scontata data la presenza di certe morbide folate post-rock e certa neo-psichedelia (Mercury Rev, Flaming Lips), tessiture etno-orientaleggianti trasognate e un uso – non dichiaratamente vintage - dei synth che difficilmente non potrà non lasciare traccia all'ascoltatore.

Comunque, un disco estatico, propiziatorio, a ben vedere, forse, il capolavoro della band di Sassuolo. Un progetto, il loro, dove la commistione di generi e suoni non ha avuto mai alcunché di altezzoso ma, anzi, sincero dove elegantemente si sono congiunti e si congiungono peculiarità specifiche d'immersione dal pop-rock, al funk, al garage-rock e a quest'ultima psichedelia cosidetta “occulta” - se vogliamo, ma anche non troppo - verso montagne jodorwskyane. Un consiglio per l'ascolto: Turn on, tune in, drop out; bè, ancor meglio senza “drop out”.





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